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Visualizzazione dei post da maggio, 2016

Il mio parere su Lo chiamavano Jeeg Robot

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Un film portentoso, un miracolo, un vulcano coatto e romantico, o molto più prosaicamente, una f-i-g-a-t-a, una cosa da ola senza fine allo Stadio Olimpico. Lo chiamavano Jeeg Robot  (primo lungometraggio di Gabriele Mainetti ) è il manifesto di un cinema giovane, su di giri, innovativo, è una rivoluzione sulla poltroncina della sala cinematografica, è l'entusiasmo sulle facce delle persone all'uscita dal cinema, è una febbre che ha contagiato tutti. Il supereroismo di ispirazione hollywoodiana incontra Tor Bella Monaca, la straordinarietà dei superpoteri incontra la triste ordinarietà del degrado suburbano. Gli anime giapponesi si ibridano con un tessuto sociale grottesco e dedito al malaffare, il Superhero movie si fa de noantri, ma il risultato finale non è parodia, non è citazione, non è innesto, ma è un'enorme creatura cinematografica debuttante e sfacciatamente originale, assolutamente coraggiosa. Questo film è prima di ogni cosa un'idea, una folgorazione

Il mio parere su La pazza gioia

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L'elogio tragicomico della follia che ci ha regalato Paolo Virzì è una di quelle cose così profondamente belle da lasciare lo spettatore a bocca, cuore e vie lacrimali aperti per un bel po'. Ci si sente scanzonati e commossi all'uscita dalla sala. Ci si sente grati. Perché dietro (e dentro) questo film c'è studio, osservazione sul campo, sensibilità, gioia e pazzia. E c'è uno sguardo sulle donne di rara delicatezza, di complicità e gentilezza (grazie Paolo!). Un film così vitale e attraversato da flussi ininterrotti di impeto e dolore non si dimentica facilmente. Il suo equilibrio tra sofferenza e gioia, tra malattia e normalità, tra chiusura e libertà è perfetto. La sua armonia è impeccabile, è giusta, è la soluzione più brillante e rispettosa (ma non tediosa) che ci possa essere nei confronti di un tema così ingombrante e delicato. La pazza gioia , come preannuncia il suo brioso titolo, è un tour folle e sregolato, un forsennato inno alla libertà d&

I Love Books: 121. Lasciar andare

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Lasciar andare è il primo romanzo di Philip Roth (dopo la raccolta di racconti Goodbye Columbus ), anno 1962, età anagrafica 29 anni. Einaudi lo ha presentato nella nuova traduzione di Norman Gobetti . Io mi sono precipitata in libreria per far mie le origini del Mito. Leggere Lasciar andare è un'esperienza singolare perché sai che hai in mano un Roth e quindi, a colpo sicuro, letteratura di fattura pregevole e di valore umano potentissimo, ma hai anche in mano l'opera prima di un giovane, e cose fragili come la giovinezza o il debutto non sembrano adattarsi all'imponenza senza contorni e senza tempo di un gigante come Roth . Un lieve timore di imbattersi in altro, un altro con meno esperienza e meno controllo, c'è, di conoscere un lato diverso di uno status letterario intoccabile. D'altra parte, stiamo sempre parlando di Roth , la fiducia sorge spontanea, l'abbandono alle sue parole pure. Lasciar andare è immaturo, ingenuo, perfettibile, proli

Il mio parere su Le confessioni

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Quei film che mah...boh...yawn. Quei film che si pongono come opere sofisticate e intellettualmente determinate, ambiziose per forma e contenuto, ammantate di un ermetismo d'insieme che vuole ammiccare a qualcos'altro, ma che tirando le somme è solo un vuoto esercizio registico, un andirivieni di personaggi che non hanno granché da trasmettere allo spettatore. Le confessioni mi è parso così, un film inconcludente, due ore di niente che tentano di darsi uno spessore, una bolla di spunti e riflessioni su argomenti delicati che parte già poco convinta e si sgonfia sempre di più. Dilatato, votato all'essenziale, al non detto o al detto metaforico, poco interessato al senso del ritmo e a quello della tensione. Alla fine del film ti rimane solo il mal di schiena per le poltrone scomode del cinema e un senso di sbadigliante perplessità. Non ho mai visto Viva la Libertà di Roberto Andò (dovrei farlo?), non posso pronunciarmi sullo stile del regista palermitano, ma

I Love Books: 120. Mrs Bridge

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Pubblicato per la prima volta nel 1959, uscito per  Einaudi pochi mesi fa, Mrs Bridge nella mia esperienza di lettrice è stato il classico caso di opera acquistata a scatola chiusa che era meglio se rimaneva dentro quella scatola. Anche se era una scatola Einaudi , da cui di solito pesco molto bene. Ingannevole è la quarta di copertina sopra ogni cosa. Ho letto parole-mondo come Revolutionary Road ,  Stoner  e Pastorale americana   e non ho esitato nemmeno un attimo nell'acquisto. Sentivo corde familiari vibrare attraverso l'involucro di plastica ed ero certa che avrebbe fatto al caso mio, complice anche quella elegante signora retrò in giallo che campeggia in copertina. Purtroppo sono rimasta delusa. Evan S. Connell  non fa per me. Mrs Bridge è uno dei libri più tristi e carenti di affetto che abbia mai letto. Nel contenuto, ma anche nella forma. La sua essenziale e fotografica descrizione di momenti minimi nell'arco di una vita lo rende spietato, fintament

Il mio parere su Macbeth

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Sono passati esattamente 400 anni dalla morte di Shakespeare e le sue parole non hanno perso nemmeno un po' della loro prodigiosa virtù, quella capacità di descrivere e interpellare l'umana specie tutta e le spinte che da sempre la animano, il delitto e il castigo, la passione e la dannazione, il volere e il soccombere. Vedere Macbeth di Justin Kurzel proprio il 23 aprile, data della ricorrenza, mi sembrava un buon modo per celebrare nel mio piccolo il Bardo immortale. Mi sembrava... Invece ho percepito tutto il tempo un senso di tradimento, di forzatura da opera sottratta alla sua natura e restituita ad un'altra forma che non le si confà. Un corto circuito tra teatrale e cinematografico scandito da continui cali di tensione (e attenzione, da parte mia), da vuoti cosmici nell'azione. Dunque... Le parole sferzanti di Shakespeare , quei monologhi carichi di passione, tenacia e lirismo, quei pensieri espressi a voce alta con solennità tragica che fanno tr