I Love Books: 95. Via dalla pazza folla



L'idea fissa che mi ero fatta di Thomas Hardy aveva a che fare con un romanticismo tetro e tragico, con una solennità poetica e ombrosa, con una tonalità ineluttabile di grigio cupo che avvolge cose, persone, vicende in un vortice funesto.
Sia Tess dei D'Urberville sia Jude l'oscuro sono state letture tutt'altro che consolatorie e leggiadre, ma essendomi all'epoca predisposta preventivamente alla negatività hardyana, sono riuscita a tirare fuori la bellezza e la potenza di entrambe le narrazioni e ad amare lo stile forte dello scrittore inglese.

Quello che mi aspettavo da Via dalla pazza folla era pertanto una totale disarmonia atmosferica con la primavera tutt'intorno a me, un contrasto tra la solarità esterna e la cupezza interna alle pagine.
Volevo però arrivare preparata all'uscita del film di Thomas Vinterberg tratto dal romanzo e così, armata di curiosità e coraggio ho intrapreso il cammino senza ombrello e cerotti per il cuore.



E invece c'è stata un'enorme sorpresa: Hardy non era ancora così pessimista quando ha scritto Via dalla pazza folla (nel 1874, mentre Tess e Jude sono del 1891 e del 1895) e infatti il romanzo ha a che fare con l'elegia, con la ballata popolare, con una semplicità antifilosofica e non è funereo come i romanzi successivi.

Immaginate l'Arcadia, una dimensione bucolica e agreste, quasi primordiale, fatta di pastori e fanciulle fresche come le rose, di personaggi strettamente connessi alla Natura, di amori idealizzati e romanticismi fuori moda.
E pecore, greggi sconfinati di pecore.
Un idillio pastorale in cui una giovane donna, l'indomita (e insopportabile) Batsceba Everdene viene amata da tre uomini contemporaneamente con tutta una serie di più o meno catastrofiche conseguenze.
Ma soprattutto la storia di una pazienza biblica: quella di Gabriel Oak, il pastore ex fittavolo che ama da subito Batsceba, sua datrice di lavoro, ma non pretende il suo amore. Una figura buonissima, purissima, simbolica, in contrapposizione ad una figura femminile indipendente e tutt'altro che subalterna, sfiorata da una modernità interessante.
Certo, non mancano le disgrazie e non tutto è bucolico, ma siamo molto lontani dalla negatività ineluttabile degli altri due romanzi.

Il linguaggio per me è stato un grosso problema: arcaico, affettato, a tratti insostenibile.
Una vera impresa per il lettore odierno, anche per chi non teme i romanzoni classici e il loro carico di attitudini ottocentesche.
C'è da dire che l'ho letto in eBook, a pochi centesimi, in una traduzione della preistoria in cui i nomi inglesi sono ridicolmente italianizzati e credo che ciò abbia reso l'insieme qualcosa di bizzarro e di arduo.

Eppure l'ho portato avanti fino alla fine e non solo perché ho questo difetto della tenacia letteraria a tutti i costi che mi porta alla sfida sul ring del libro pesante.

C'è anche un'altra ragione e credo abbia a che fare con la leggerezza paesaggistica, con il fatto che dentro il libro ci sia un mondo pastorale dai ritmi dolci che conciliano il sonno la serenità e stridono piacevolmente con tutto ciò che è rumore e frenesia contemporanea.
Perché la sensazione è quella di un'immersione atemporale nella campagna inglese e della percezione nettissima di odori, colori e sapori di questa dimensione idilliaca e sospesa.

Solo questo aspetto mi ha impedito di mollare, perché per il resto Via dalla pazza folla è stato una grande delusione e una discreta noia.
All'Hardy giovane innamorato dell'amore e in vena di odi bucoliche immerse nella pastorizia preferisco di gran lunga l'Hardy maturo e deprimente, quello delle passioni totalizzanti e fatali, quello del destino feroce, quello della brughiera malefica.

Francamente non ce lo vedo Vinterberg a dirigere una storia di questo tipo, ma ne riparleremo in futuro...

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