Serie tv mon amour: 37. Stranger Things
Sono nata nel 1984, come Matt e Ross Duffer, i gemelli che hanno ideato, scritto e diretto con somma genialità Stranger Things.
Che macchina del tempo commovente ed esaltante sia stata questa serie per me è difficile dirlo.
Il mio senso di gratitudine è enorme, mi sento citata e tirata in ballo in prima persona, un'ondata di fierezza generazionale mi assale e mi gratifica.
Qualcuno provveda a santificare i Duffer brothers subito. E anche Netflix come piattaforma di preziosi regali in streaming.
L'hanno detto tutti, è scritto dovunque, ma io lo dirò lo stesso perché voglio incanalare il mio entusiasmo in qualche modo: Stranger Things è un atto di amore, una dedica continua al nostro immaginario e a tutto ciò che negli anni '80 l'ha forgiato, tutta quella musica, quel cinema, quel vestiario che oggi ci fa commuovere, imbarazzare, divertire come in una caccia al tesoro nei ricordi.
L'omaggio alla nostra infanzia è totale.
Se si guarda questa serie in compagnia di altri figli degli Eighties come noi, nell'aria si diffondono vibrazioni di divertito amarcord, di revival generazionale, di adrenalina per cose che conosciamo molto bene e di cui nessuno ci parlava da decenni.
L'operazione nostalgia non poteva lasciare indifferenti: è stato come assistere ad un video amatoriale di quando si era piccoli e la tecnologia era posticcia, le televisioni con i tubi catodici e i mezzi di comunicazione così naif da far tenerezza.
Gli Eighties nella loro essenza, con tutto il loro trash, i b-movies, la fantascienza cinematografica e letteraria, la musica elettronica, la paura degli alieni, la minaccia sovietica, lo spazio, i fenomeni paranormali e quel non so che di ingenuità e di adorabile cattivo gusto complessivo.
Stranger Things è un'ode agli anni '80, un mix perfetto di spunti epocali:
Stephen King, con i suoi ragazzini di provincia coinvolti in storie tenebrose e oniriche. It soprattutto, con la sua dimensione distorta e terrificante, ma anche Stand by me. Il font della sigla d'apertura è King al 100%, è la copertina di un suo romanzo.
Steven Spielberg, con i suoi giovani avventurieri in bici e l'alieno più tenero del creato cinematografico.
John Carpenter, con le sue oscure "cose" e le inquietanti colonne sonore elettroniche (la sigla d'apertura della serie si ispira efficacemente ad esse).
Ma mi sono venuti in mente anche David Cronenberg, Ridley Scott con i suoi alieni fluidi e tentacolari, e poi film come Poltergeist e Nightmare e tutto il mostruoso e sovrannaturale che ci ha fatto paura trenta anni fa.
E poi c'è il giovane mondo geek, quello dei tipici sottoscala americani, il classico gruppetto di ragazzini losers e bullizzati che trovano rifugio nel fantasy, nei giochi di ruolo, in lunghe sedute di Dungeons & Dragons, che scorrazzano con le loro bici come mezzo di riscatto liberatorio e comunicano con i walkie talkie cose di cui gli adulti sono all'oscuro, per lo meno i più razionali.
E ancora Winona Ryder, fragile meraviglia che sembrava essere stata inghiottita da un buco nero e che ci viene restituita da questa serie nel migliore dei modi.
La restaurazione di un'icona.
Nel ruolo di Joyce Byers, madre piuttosto elettrica del dodicenne scomparso, riesce a commuovere e trasmettere energia combattiva, riesce ad essere credibile, con la sua ansia, la sua agitazione perenne, anche nelle scene più inverosimili, anche quando deve parlare con delle luci natalizie (vedendo la serie capirete!).
Ora, se togliamo tutta questa interessante operazione di citazionismo, recupero ed omaggio, se proviamo ad innamorarci di meno dell'estetica complessiva della serie e a far finta di non essere nati negli '80, se facciamo palpitare meno il cuore per Winona e il tempo perduto, cosa rimane? C'è possibilità di coinvolgimento?
Eccome se c'è!
Perché al di là di ogni gioco al rimando, di ogni nostalgia e di ogni cinefilia, Stranger Things è un mistery-horror-sci-fi intrigante, carico di tensione, ben architettato e recitato divinamente, in uno stato di equilibrio perfetto tra realtà e distopia, come un grande romanzo di King, dove l'avventura mozzafiato, l'oscuro e il quotidiano dell'America meno appariscente convivono con perfetta credibilità.
La recitazione è oro colato: ma ragazzini così bravi e intensi dove li hanno trovati?
Davvero, sono dei fenomeni paranormali.
Eleven (Millie Bobby Brown), che mi ha ricordato una piccola Natalie Portman skinhead, è fragilità e potenza allo stato puro.
Le scene nell'Upside Down parallelo che la vedono protagonista, così ottiche e minimali, sono eccellenti, suggestive.
Ineccepibile anche il trio di spigliatissimi bruttini protagonisti: Mike (Finn Wolfhard), Dustin (Gaten Matarazzo), Lucas (Caleb McLaughlin), un'amalgama nerd che si fa adorare per peculiarità estetiche, coraggio e slancio avventuroso.
Sono loro la vera parte supernatural della serie.
Che altro dire?
Che gli altri personaggi sono altrettanto bravi: David Harbour nel ruolo del capo della polizia Jim Hopper, tenebroso impavido nelle tenebre, Charlie Heaton nel ruolo di Johnathan Byers che sembra River Phoenix e questo basta a renderlo speciale, Natalia Dyer nel ruolo di Nancy Wheeler, una skinny very strong.
Che la colonna sonora è pregiatissima, con quella Should I Stay or Should I Go dei The Clash che acquista un senso nel plot, e tutta una serie di altri sprazzi sonori d'antan lontani anni luce dagli anni 2000.
Che il finale - rischiosissimo in una serie di questo tipo - è molto appagante per lo spettatore ed è anche una minaccia, una promessa.
Che il mio cuore è rimasto là, ad Hawkins, Indiana, tra portali semiaperti, dimensioni parallele, Demogorgon famelici, telecinesi, gli scleri di Joyce e tutta quella cultura anni '80 che mi ha fatto sentire vecchia e mi ha restituito all'infanzia.
Che macchina del tempo commovente ed esaltante sia stata questa serie per me è difficile dirlo.
Il mio senso di gratitudine è enorme, mi sento citata e tirata in ballo in prima persona, un'ondata di fierezza generazionale mi assale e mi gratifica.
Qualcuno provveda a santificare i Duffer brothers subito. E anche Netflix come piattaforma di preziosi regali in streaming.
L'hanno detto tutti, è scritto dovunque, ma io lo dirò lo stesso perché voglio incanalare il mio entusiasmo in qualche modo: Stranger Things è un atto di amore, una dedica continua al nostro immaginario e a tutto ciò che negli anni '80 l'ha forgiato, tutta quella musica, quel cinema, quel vestiario che oggi ci fa commuovere, imbarazzare, divertire come in una caccia al tesoro nei ricordi.
L'omaggio alla nostra infanzia è totale.
Se si guarda questa serie in compagnia di altri figli degli Eighties come noi, nell'aria si diffondono vibrazioni di divertito amarcord, di revival generazionale, di adrenalina per cose che conosciamo molto bene e di cui nessuno ci parlava da decenni.
L'operazione nostalgia non poteva lasciare indifferenti: è stato come assistere ad un video amatoriale di quando si era piccoli e la tecnologia era posticcia, le televisioni con i tubi catodici e i mezzi di comunicazione così naif da far tenerezza.
Gli Eighties nella loro essenza, con tutto il loro trash, i b-movies, la fantascienza cinematografica e letteraria, la musica elettronica, la paura degli alieni, la minaccia sovietica, lo spazio, i fenomeni paranormali e quel non so che di ingenuità e di adorabile cattivo gusto complessivo.
Stranger Things è un'ode agli anni '80, un mix perfetto di spunti epocali:
Stephen King, con i suoi ragazzini di provincia coinvolti in storie tenebrose e oniriche. It soprattutto, con la sua dimensione distorta e terrificante, ma anche Stand by me. Il font della sigla d'apertura è King al 100%, è la copertina di un suo romanzo.
Steven Spielberg, con i suoi giovani avventurieri in bici e l'alieno più tenero del creato cinematografico.
John Carpenter, con le sue oscure "cose" e le inquietanti colonne sonore elettroniche (la sigla d'apertura della serie si ispira efficacemente ad esse).
Ma mi sono venuti in mente anche David Cronenberg, Ridley Scott con i suoi alieni fluidi e tentacolari, e poi film come Poltergeist e Nightmare e tutto il mostruoso e sovrannaturale che ci ha fatto paura trenta anni fa.
E poi c'è il giovane mondo geek, quello dei tipici sottoscala americani, il classico gruppetto di ragazzini losers e bullizzati che trovano rifugio nel fantasy, nei giochi di ruolo, in lunghe sedute di Dungeons & Dragons, che scorrazzano con le loro bici come mezzo di riscatto liberatorio e comunicano con i walkie talkie cose di cui gli adulti sono all'oscuro, per lo meno i più razionali.
E ancora Winona Ryder, fragile meraviglia che sembrava essere stata inghiottita da un buco nero e che ci viene restituita da questa serie nel migliore dei modi.
La restaurazione di un'icona.
Nel ruolo di Joyce Byers, madre piuttosto elettrica del dodicenne scomparso, riesce a commuovere e trasmettere energia combattiva, riesce ad essere credibile, con la sua ansia, la sua agitazione perenne, anche nelle scene più inverosimili, anche quando deve parlare con delle luci natalizie (vedendo la serie capirete!).
Ora, se togliamo tutta questa interessante operazione di citazionismo, recupero ed omaggio, se proviamo ad innamorarci di meno dell'estetica complessiva della serie e a far finta di non essere nati negli '80, se facciamo palpitare meno il cuore per Winona e il tempo perduto, cosa rimane? C'è possibilità di coinvolgimento?
Eccome se c'è!
Perché al di là di ogni gioco al rimando, di ogni nostalgia e di ogni cinefilia, Stranger Things è un mistery-horror-sci-fi intrigante, carico di tensione, ben architettato e recitato divinamente, in uno stato di equilibrio perfetto tra realtà e distopia, come un grande romanzo di King, dove l'avventura mozzafiato, l'oscuro e il quotidiano dell'America meno appariscente convivono con perfetta credibilità.
La recitazione è oro colato: ma ragazzini così bravi e intensi dove li hanno trovati?
Davvero, sono dei fenomeni paranormali.
Eleven (Millie Bobby Brown), che mi ha ricordato una piccola Natalie Portman skinhead, è fragilità e potenza allo stato puro.
Le scene nell'Upside Down parallelo che la vedono protagonista, così ottiche e minimali, sono eccellenti, suggestive.
Ineccepibile anche il trio di spigliatissimi bruttini protagonisti: Mike (Finn Wolfhard), Dustin (Gaten Matarazzo), Lucas (Caleb McLaughlin), un'amalgama nerd che si fa adorare per peculiarità estetiche, coraggio e slancio avventuroso.
Sono loro la vera parte supernatural della serie.
Che altro dire?
Che gli altri personaggi sono altrettanto bravi: David Harbour nel ruolo del capo della polizia Jim Hopper, tenebroso impavido nelle tenebre, Charlie Heaton nel ruolo di Johnathan Byers che sembra River Phoenix e questo basta a renderlo speciale, Natalia Dyer nel ruolo di Nancy Wheeler, una skinny very strong.
Che la colonna sonora è pregiatissima, con quella Should I Stay or Should I Go dei The Clash che acquista un senso nel plot, e tutta una serie di altri sprazzi sonori d'antan lontani anni luce dagli anni 2000.
Che il finale - rischiosissimo in una serie di questo tipo - è molto appagante per lo spettatore ed è anche una minaccia, una promessa.
Che il mio cuore è rimasto là, ad Hawkins, Indiana, tra portali semiaperti, dimensioni parallele, Demogorgon famelici, telecinesi, gli scleri di Joyce e tutta quella cultura anni '80 che mi ha fatto sentire vecchia e mi ha restituito all'infanzia.
Stranger Things è una figata!
RispondiEliminapuoi dirlo forte!
Elimina...a 32 anni loro scrivono un capolavoro televisivo, ed io ancora non so dove andare... mamma mia che brutta storia!
RispondiEliminaahahahahha a chi lo dici!
EliminaDevo ancora trovare qualcuno che ne parli male...
RispondiEliminae non penso ci riuscirò, visto è un gioiellino assoluto! ;)
chi ne parla male è nato nel 2000 ;)
EliminaSpero di tornare molto presto a Hawkings, Indiana, perché come te ci ho lasciato un pezzetto di cuore!
RispondiEliminanon vedo l'ora anch'io <3
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