Il mio parere su Fuocoammare
Anch'io il 3 ottobre ho visto Fuocoammare di Gianfranco Rosi su Rai Tre.
Non avevo avuto modo di vederlo prima e la sensazione era quella di essermi persa qualcosa di importante e necessario, specialmente dopo aver saputo della sua candidatura all'Oscar come miglior film straniero.
Dico subito che sono rimasta delusa, che mi aspettavo di sentirmi dentro il fuoco e il mare del titolo, di provare un'indignazione bruciante, di dover asciugare lacrime di rabbia e di dover passare le ore successive ad arginare il senso di pietà e di dolore.
Invece ho spento la televisione un secondo dopo i titoli di coda, borbottando verso il nulla, insoddisfatta.
Silenzi che sanno di vuoto, lunghissimi indugi sull'irrilevante, occhio iperdocumentaristico distaccato fino all'impassibilità, pezzi di vita altrui fuori tema. Di tanto in tanto le immagini dirette o le testimonianze della tragedia degli sbarchi dei migranti, quello che doveva essere il cuore nero pulsante del documentario e che a me è parso uno fra i tanti pezzi della primordiale dimensione lampedusana.
Fuocoammare è il racconto minimale della vita a Lampedusa, di un bambino, della sua famiglia di pescatori e della sua iniziazione alla pesca, del suo occhio pigro da correggere, delle sue fionde e dei suoi spari per gioco, delle sua vita vicinissima all'inferno in mare, nel suo stesso mare quotidiano.
La radio trasmette canzonette, una nonna racconta dei tempi di guerra, gli sbarchi sono poco più in là.
La radio trasmette canzonette, una nonna racconta dei tempi di guerra, gli sbarchi sono poco più in là.
Manca, a mio avviso, in questa storia, la prepotenza tragica di quell'altra storia, quella dei barconi, dell'uomo la cui vita non vale niente, della morte, dell'emergenza, della catastrofe che ci riguarda tutti.
Rosi ha fatto un lavoro tecnicamente impeccabile, è rimasto lì un anno ad osservare e filmare senza alcuna distinzione tra le due azioni, ha scelto di essere un integralista del documentario e di far parlare le immagini, ma ha dimenticato di suscitarci qualcosa che sia un moto d'ira o un senso di nausea, ha tralasciato le emozioni nette, quel minimo di strategia del coinvolgimento che avrebbe potuto rendere il suo lavoro più forte, più disperato.
E se da una parte è ammirevole il voler evitare la patetica tattica del sentimento, lo sciacallaggio emotivo, dall'altro lato il suo documentario ha una patina spessa di neutralità che lo rende ben poco scottante, ben poco urgente.
Il racconto mesto del medico Pietro Bartolo, che da anni soccorre e assiste all'orrore a Lampedusa è la cosa che mi ha più toccata, il momento più umano e anche disumano del documentario, quello in cui la verità, raccontata con voce stanca e triste, ferisce a morte.
Ferita profonda che avrebbe dovuto procurare il documentario nella sua totalità e che invece non si percepisce, se non attraverso il simbolo, il richiamo soprattutto indiretto.
Avrei voluto più centralità e meno trasversalità.
Ecco, guardando Fuocoammare avrei voluto sentire di più i calci della mia coscienza.
Il racconto mesto del medico Pietro Bartolo, che da anni soccorre e assiste all'orrore a Lampedusa è la cosa che mi ha più toccata, il momento più umano e anche disumano del documentario, quello in cui la verità, raccontata con voce stanca e triste, ferisce a morte.
Ferita profonda che avrebbe dovuto procurare il documentario nella sua totalità e che invece non si percepisce, se non attraverso il simbolo, il richiamo soprattutto indiretto.
Avrei voluto più centralità e meno trasversalità.
Ecco, guardando Fuocoammare avrei voluto sentire di più i calci della mia coscienza.
Anche per me un discreto diludendo.
RispondiEliminaBuone le intenzioni, però si poteva fare di (molto) meglio...
già, idea non scontata, ma risultato deludente.
EliminaA me invece è piaciuto molto. L'occhio pigro del bimbo è, metaforicamente, quello di noi spettatori, della gente comune, che prova pietà per i profughi solo quando sono "lontani" e non la toccano direttamente... il film di Rosi mette bene in evidenza l'umanità dei lampedusani, accostando le immagini drammatiche dei rifugiati a quelle di vita quotidiana dell'isola, che va avanti nonostante i drammi che vi si consumano. Non penso che arriverà all'oscar (forse nemmeno alla nomination) ma secondo me la candidatura è stata un bellissimo gesto.
RispondiEliminabella sicuramente la metafora, ma ho trovato le parti di vita quotidiana minimale e quelle degli sbarchi troppo staccate fra loro, prive di nessi, di un discorso comune.
EliminaQuando il bambino risucchia gli spaghetti per una sequenza lunghissima avrei voluto spegnere la tv.
Diciamo che il titolo inganna: uno si aspetterebbe un documentario sui migranti, invece questo è un documento (si, un documento) su Lampedusa e la sua duplice faccia: da una parte i disperati che arrivano in condizioni pietose - questo lo si capisce molto bene - e dall'altra gli abitanti e la loro quotidianità lenta e antica. Sarebbe stato molto furbo (e facile) da parte di Rosi concentrarsi sui volti e le storie dei migranti: indignazione e lacrime assicurate! Invece ci ha consegnato un film su un'isola e su quello che ci avviene sopra senza il solito, ipocrita pietismo e ricordandoci che non sono solo i migranti ad essere in difficoltà, ma tutta la popolazione che subisce questa situazione. Personalmente quindi mi è piaciuto!
RispondiEliminaInfatti è un documento (dici bene) su Lampedusa, microcosmo fuori dal tempo sicuramente interessante nelle sue dinamiche. L'urgenza però credo sia un'altra e io mi aspettavo più riferimenti diretti. Non pietismo, per carità, ma più potenza.
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