I Love Books: 121. Lasciar andare


Lasciar andare è il primo romanzo di Philip Roth (dopo la raccolta di racconti Goodbye Columbus), anno 1962, età anagrafica 29 anni.
Einaudi lo ha presentato nella nuova traduzione di Norman Gobetti.
Io mi sono precipitata in libreria per far mie le origini del Mito.

Leggere Lasciar andare è un'esperienza singolare perché sai che hai in mano un Roth e quindi, a colpo sicuro, letteratura di fattura pregevole e di valore umano potentissimo, ma hai anche in mano l'opera prima di un giovane, e cose fragili come la giovinezza o il debutto non sembrano adattarsi all'imponenza senza contorni e senza tempo di un gigante come Roth.

Un lieve timore di imbattersi in altro, un altro con meno esperienza e meno controllo, c'è, di conoscere un lato diverso di uno status letterario intoccabile.
D'altra parte, stiamo sempre parlando di Roth, la fiducia sorge spontanea, l'abbandono alle sue parole pure.

Lasciar andare è immaturo, ingenuo, perfettibile, prolisso, talvolta eccessivo nelle ambizioni?
Sì, lo è.
Poteva essere editato meglio, potete perdere parte del suo peso cartaceo guadagnando in ritmo, poteva ridurre la sua portata fin troppo corale guadagnando in focalizzazione.

MA, vani "poteva" a parte, è anche un volume di quasi 800 pagine con un'anima e un calore umano commoventi, è anche il classico Roth che amiamo nelle opere più mature, quello che sventra i rapporti umani, li analizza, li sbatte in faccia al lettore come specchio di perfetta e dolorosa identificazione.

C'è il guizzo della giovinezza dentro, con la sua tendenza all'esagerazione, ma il dolore, quel tipo di consistenza addolorata e bellissima che avvolge le narrazioni di Roth, c'è, ed un porto sicuro, già maturo, in cui trovare rifugio perché la vita è fatta esattamente così e nessuno come Roth la sa trasformare in battito cardiaco letterario.

E poi le relazioni.
Il cuore del romanzo batte al ritmo complesso delle relazioni, quell'imbattersi, sbattere, fare guerra con l'altro, che sia un partner, un amico, un genitore, un incontro casuale, un credo religioso, senza tregua, senza moderazione, con violenza vitale.

Questa capacità di essere così vicino al cosmo in perenne moto dei rapporti sentimentali e sociali, di essere così spietato e lirico nel metterli a nudo, è già netta in questo esordio.
Talvolta il giovane Roth si avvicina troppo ai personaggi fino a rendere sfocati i nodi cruciali, ma la sensibilità è quella, riconoscibilissima e miracolosa.

Personaggi incompleti, erranti, in rotta di collisione con la realizzazione di se stessi e sempre sul ring beffardo della vita, ce ne sono in quantità.

Il protagonista è Gabe Wallach, che ama Henry James e insegna letteratura, che si butta con inspiegabile autolesionismo nell'aiuto del prossimo, in un tipo di amore missionario e in un tipo di insolita ricerca di sé che passa troppo attraverso i problemi degli altri.
Lasciar andare non è il suo forte, trattenere l'altrui dolore gli riesce molto meglio.
La mia vita, che cos'è? La mia vita, dov'è andata? Passavo di continuo dal sentirmi compiaciuto al sentirmi astioso, dal sentirmi ragionevole al sentirmi ignorante e crudele. La battaglia era infuriata per tutta la notte, col mio acciaccato senso di rettitudine che avanzava sventolando una grande bandiera rossa con scritto IO SONO: patriota di me stesso! paladino di me stesso! me stesso di me stesso! Rivendicava il mio pieno diritto di essere crudele, il mio pieno diritto di farla finita con gli Herz. Di farla finita con tutti. Poneva una domanda niente affatto inedita per la nostra specie: Quanto ancora, da me? 

E poi ci sono Paul e Libby Herz, coppia dalla fragilità commovente. Lui insoddisfatto, cupo, incapace di identificarsi in qualcosa, lei troppo delicata e malinconica.
Insieme una di quelle bombe che Roth ama piazzare nell'esistenza dei suoi protagonisti per generare collisioni, tensioni, talvolta esplosioni.
Naturalmente era molto infelice. Fra la finzione e la realtà, fra quel che è inventato e quel che è dato, sta l'anima torturata di ciascuno.

E ancora, Martha Reganhart (personaggio che personalmente ho odiato), due figli piccoli a carico, una vita poco regolata, un'indole prepotente quando non impotente.
Anche lei un fenomeno tellurico nella vita di Gabe, desiderio e condanna insieme.
L'impulso che sentiva no era solo lussuria; la lussuria vi era inglobata all'interno: desiderava disfare tutto quel che era stato fatto, e fare quel che non era stato fatto.

L'incontro e l'intreccio di queste persone, il loro problematico relazionarsi, ma anche la classicissima conflittualità rispetto all'ebraismo e la crucialità del rapporto padri-figli, tutto questo, talore in nuce, talora in modo pieno, è già presente in Lasciar andare.

Bilancio finale: posso dire di aver amato questo romanzo e di aver tollerato bene le sue lungaggini, la sua tendenza vagamente dispersiva e quell'impeto di racchiudere più materiale possibile, più vita possibile che spesso crea rigurgiti.

L'ho amato, nonostante i suoi difetti, perché mi ha trasmesso passione, quella tipica passione rothiana, che altro non è che la vita nelle sue infinite declinazioni, nelle sue fisiologiche complicazioni, nella sua urgenza, nelle sue attese, nelle sue pretese.

A quel punto nessuno dei due, credo, sarebbe rimasto stupito se ci fossimo abbracciati. Era uno di quei momenti emotivi che ci si si accorge di non essere i soli a vivere.

Non siamo i soli a vivere e Roth ce lo ricorda sempre con modalità vigorosa e bellissima (e per questo lo amiamo tanto e gli siamo grati). Anche da esordiente.

Commenti

  1. Questo mi manca. Non mi fa impazzire quando è troppo prolisso, ma Roth è sempre Roth :)

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  2. Dici bene, Roth è sempre Roth (ed è sempre stato Roth) 😃

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  3. Roth è uno di quegli autori che, insieme a Wallace, vi fanno una paura non indifferente, tanto che non ho ancora letto nulla di loro...

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    1. Wallace lo temo anch'io e credo che ci staremmo antipatici, ma Roth lo consiglio sempre al mondo intero :D

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  4. Roth lo devo assolutamente recuperare. Assolutamente.

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